Cartesio sosteneva che “Il dubbio è l’inizio della conoscenza” e non sono pochi i casi in cui proprio il dubbio ha dato libertà a chi si credeva fosse colpevole e ha fatto giustizia contro chi si credeva fosse innocente. Evitare il dubbio significa intraprendere la strada dell’inganno che sappiamo essere, sì, parallela a quella della verità ma proiettata in direzione diametralmente opposta.
Quando il dubbio si insinua nelle aule dei tribunali, nei banchi degli imputati, nella mente dei giudicanti, buon senso vuole che il favor venga dato al presunto reo.
La locuzione latina “in dubio pro reo”, infatti, indica che, quando non v’è certezza di colpevolezza, è meglio che il giudice accetti il rischio di assolvere un colpevole piuttosto che quello di condannare un innocente.
Ciò è stato forse trascurato nel caso dei “Mostri di Ponticelli”. Il 2 luglio del 1983 segnò la fine della vita a due bambine: Barbara Sellini e Nunzia Munizzi. Alle 19:30 di quel giorno, le due bambine uscirono di casa per incontrarsi con un uomo da loro chiamato Gino, ma non tornarono più. La ricerca fu breve ed Ermes -riprendendo la mitologia greca- non aveva di certo buone notizie. Il 3 luglio vennero ritrovati dai carabinieri i due corpi semi-carbonizzati. Il primo sospetto investì un venditore ambulante, Corrado Enrico detto Luigino, che aveva precedenti per abusi su minori e la sua macchina corrispondeva a quella che cercavano gli inquirenti. Nonostante ciò non venne approfondita tale pista. Al contrario vennero arrestati e condannati tre incensurati (Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo) a seguito di sopralluoghi fatti sommariamente e interrogatori violenti. A fare il loro nome fu Carmine Mastrillo che sosteneva di aver ricevuto la confessione del fatto da uno dei tre presunti rei. I dubbi riguardo la colpevolezza dei tre sorgono per due motivi non trascurabili: il primo è il tempo, in quanto i tre avrebbero dovuto mettere in atto quelle barbarie in poco meno di un’ora. Il secondo è l’assenza di tracce biologiche delle vittime nelle auto dei presunti assassini e sui loro vestiti. Pur essendo le motivazioni della tesi accusatoria molto controversa, l’accusa prevalse in tutti e tre i gradi di giudizio. Molto si è detto su questo caso, che ha fatto scalpore a livello nazionale; qualcuno ha anche ipotizzato un interesse della camorra ad incastrare i tre. Questi si sono sempre proclamati innocenti e hanno tre volte chiesto la revisione del processo che, però, gli è stata negata. La loro richiesta, come da essi dichiarato, non mira ad ottenere un risarcimento del danno per ingiusta detenzione quanto a ripulire il proprio nome dall’infamia e ad assicurare alla giustizia il vero “Mostro di Ponticelli”. Questa è una storia che potrebbe rappresentare un caso in cui, per via della forte pressione mediatica, si è cercato di assecondare più la sete di vendetta che quella di giustizia. Quel che resta è che tre uomini hanno scontato 32 anni di carcere e, se fossero realmente innocenti, sarebbe una pagina buia della storia della giustizia italiana.