In ciascun contesto socio-culturale vi sono reati che suscitano più stupore e avversione di altri, come l’ infanticidio. Questo reato, infatti, si scontra terribilmente con l’immaginario comune in cui il momento del parto è associato ad evento di gioia infinita, privo di tragedia. Ma quand’è che si può parlare di infanticidio? Secondo l’attuale formulazione dell’art.587 c.p., il reato consiste nell’uccisione, da parte della madre, del feto durante il parto o del neonato immediatamente dopo il parto, quando il fatto sia determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto. Quando sussistono tali condizioni, il legislatore considera la condotta della madre come connotata da un minor disvalore penale, il che andrebbe a giustificare la previsione di una pena inferiore a quella prevista per l’omicidio volontario. Questa formulazione attuale è una conseguenza della legge n. 442 del 1981, frutto di un mutamento della percezione sociale e giuridica dell’infanticidio, che ha abrogato la rilevanza penale della causa d’onore, riscrivendo totalmente questa figura autonoma di reato. In passato, infatti, elemento distintivo del reato era la causa d’onore e la norma collegava l’infanticidio allo scopo di salvare l’onore proprio della donna o quello di un suo prossimo congiunto. Tali circostanze giustificavano la previsione di una pena minore rispetto a quella prevista per l’omicidio volontario. L’attuale norma va invece a valorizzare la condizione oggettiva di “abbandono materiale e morale” connessa al parto. Si tratta di una formulazione piuttosto generica che, soprattutto di recente, ha portato a diversi problemi interpretativi, sorti dalla necessità di non riservare all’art. 587 un’applicazione del tutto eccezionale. L’interpretazione dei giudici non è sempre stata univoca: si è parlato in alcuni casi della necessità di un isolamento totale della donna, che ai fini della configurazione dell’infanticidio dovrebbe trovarsi “in balia di se stessa”. Tuttavia, vi sono state più di recente interpretazioni meno restrittive, che hanno valorizzato maggiormente la dimensione psicologica della donna, facendo riferimento anche ad una “solitudine interiore”.
Uno dei più recenti interventi della corte di cassazione, infatti, impone di non considerare l’abbandono in termini di assoluta oggettività, ma di porre l’attenzione sulla percezione della donna. Lo stesso riferimento al momento immediatamente successivo al parto si giustifica proprio in considerazione del particolare stato psichico in cui si suppone potrebbe trovarsi la donna in quella fase. Ma per quanto possa essere a tratti rassicurante attribuire sempre e comunque alla donna infanticida una patologia mentale, bisogna evitare automatismi in tal senso e riconoscere che purtroppo anche un atto così atroce può risultare da una libera e consapevole scelta. È proprio da qui che nasce l’esigenza di una norma chiara, che sia in grado di dare la giusta rilevanza penale alla eventuale condizione di alterità psicologica della madre e allo stesso tempo proteggere la vita del neonato.